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Con la recentissima Pronuncia della Cassazione – Sezione Lavoro N. 8194 del 04/04/2018, torna di attualità un argomento estremamente rilevante in tema di rapporto lavorativo: il fatto illecito addebitato al lavoratore quale “giusta causa” di licenziamento.

Esaminiamo la fattispecie: la cassiera di un supermercato viene licenziata perché sorpresa dalle telecamere a sottrarre dagli scaffali due confezioni di caramelle e a ritagliare i “buoni acquisto” di due scatole di cracker in vendita. La Suprema Corte ha confermato la legittimità del licenziamento sulla scorta del seguente principio di diritto: “…in caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione non già l’assenza o la speciale tenuità del danno patrimoniale, ma la ripercussione sul rapporto di lavoro di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, in quanto sintomatica dell’atteggiarsi del dipendente rispetto agli obblighi assunti…” (cfr. Cass. Civ., Sez. Lavoro, 04/04/2018 N. 8194).

A una prima lettura verrebbe da chiedersi come mai la massima sanzione disciplinare sia stata irrogata dall’azienda (e ritenuta “proporzionata” dalla Cassazione), posto che la lavoratrice si è appropriata di beni di minimo valore, producendo in concreto un danno patrimoniale di particolare tenuità.

Il punto di partenza della indagine è senz’altro il “rapporto fiduciario” tra datore e lavoratore consacrato dall’art. 2119 C.C., che il Giudice deve valutare sulla base della gravità dell’inadempimento e della contrarietà della condotta del lavoratore alle norme della comune etica e del vivere civile (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., N. 4060/2010). Tale valutazione non si esaurisce nelle mere conseguenze economiche prodotte in danno dell’azienda, bensì comprende anche altri fattori quali: il grado di responsabilità collegato alle mansioni affidate al lavoratore, le modalità della condotta illecita – specie se rivelatrici di una particolare propensione alla trasgressione – e l’incidenza dei fatti sul vincolo di fiducia che caratterizza lo specifico rapporto di lavoro (cit. Lara ATTADEMO in “Le fonti del diritto”, Codice Civile di P. Rescigno).

In applicazione dei descritti criteri, la Ecc.ma Corte in un precedente caso ha confermato il licenziamento dell’autista di una ditta di trasporti che si era appropriato di 25 litri di gasolio sottratti all’automezzo a lui affidato (cfr. Cass. Civ. Sez. Lav., N. 16260/2004). Al contrario, in un’altra occasione la Cassazione ha obbligato l’azienda al reintegro del lavoratore che si era appropriato furtivamente di alcuni fogli di cartone usati per il confezionamento delle merci, che tuttavia erano stati accantonati e destinati a essere smaltiti come rifiuti, circostanza che ha contribuito a considerare il comportamento come non lesivo del vincolo fiduciario ex art. 2119 C.C. (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., N. 1505/2012).

Tutti gli elementi di fatto e di diritto sin qui delineati, confluiscono nella questione essenziale ai fini del licenziamento: la condotta illecita del lavoratore ha irrimediabilmente incrinato la fiducia tra le parti oppure no?

La risposta va ricercata non tanto (e non solo) nella entità patrimoniale del danno, quanto piuttosto nel bilanciamento degli interessi perseguiti dal lavoratore (art. 4 della Costituzione: diritto/dovere al lavoro) e dal datore (art. 41 Costituzione: libertà della iniziativa economica), valutando la condotta del lavoratore in riferimento agli obblighi di diligenza e fedeltà, anche alla luce del disvalore ambientale che la stessa può assumere alla stregua di un “modello negativo” per gli altri dipendenti dell’impresa (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., N. 17208/2003).

Avv. Francesco Saverio FRANCHI

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