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La vicenda trae origine dal caso del licenziamento di una lavoratrice a causa della pubblicazione su Facebook di frasi con cui esprimeva disprezzo per l’azienda (testualmente in Sentenza: “mi sono rotta i coglioni di questo posto di merda e per la proprietà”) e minacciava l’utilizzo fittizio dell’assenza per malattia.

Il ricorso proposto dalla lavoratrice avverso il licenziamento veniva respinto in primo ed in secondo grado.

Avverso tali Pronunce, la lavoratrice promuoveva ricorso per Cassazione sostenendo che la Corte di Appello era pervenuta al giudizio di legittimità del licenziamento senza valutare il grado di intenzionalità della sua condotta, in quanto l’uso di Facebook aveva determinato in lei l’inconsapevolezza di diffondere nel mondo reale il proprio sfogo, quando invece voleva essere diretto solo alla ristretta cerchia dei suoi amici sul social network. Aggiungeva che la sanzione del licenziamento doveva ritenersi sproporzionata, in quanto le espressioni utilizzate nel “post” dovevano ritenersi di comune utilizzo nel linguaggio sociale come forme verbali critiche avverso una organizzazione di lavoro ritenuta inadeguata, e che le espressioni diffamatorie non erano direttamente collegate a soggetti individuabili.

Con la Sentenza N. 10280/2018, la Sezione Lavoro della Cassazione ha rigettato il ricorso della lavoratrice, statuendo che:

  1. la diffusione di un messaggio contenente espressioni ingiuriose o offensive attraverso la “bacheca” di Facebook può ben integrare una ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione;
  2. è irrilevante il fatto che il nominativo del legale rappresentante dell’azienda non fosse specificato nel “post”, in quanto il destinatario delle espressioni ingiuriose era facilmente individuabile, per cui il reato di diffamazione doveva ritenersi realizzato in tutte le sue componenti;
  3. una volta accertata la diffamazione, deve essere valutato anche il profilo della giusta causa del licenziamento, in termini di idoneità della condotta della dipendente a interrompere il vincolo fiduciario con il datore di lavoro (per approfondire il tema, vedi anche: http://studiofranchivalente.com/2018/04/10/318/ ); il giudizio di proporzionalità del licenziamento – dice la Suprema Corte – è questione rimessa al Giudice di merito (Tribunale e Corte di appello), la cui valutazione è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da adeguata motivazione.

Dal pronunciamento della Cassazione si possono trarre importanti indicazioni in merito alla “potenza” (e la conseguente pericolosità) dello strumento comunicativo dei social network, posto che le espressioni ingiuriose diffuse nella rete possono comportare conseguenze non solo in termini di lesione della dignità di altre persone, ma – ed è l’aspetto più innovativo della Sentenza in commento – possono essere idonee anche a incrinare irrimediabilmente il “rapporto fiduciario” tra datore e lavoratore.

Avv. Stefano FRANCHI

fv

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