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La recentissima Sentenza della Corte Suprema Penale (Sez. V, N. 61 del 28/01/19) ha riaperto il dibattito sulla natura del reato di “stalking”, ribadendo l’irrilevanza di un effettivo incontro fra i soggetti coinvolti.

Nella descritta Pronuncia gli Ermellini hanno stabilito la condanna di un uomo che aveva arrecato un turbamento psicologico ad una Dottoressa inoltrando alla medesima “soltanto” 12 messaggi “WhatsApp” e due telefonate, poiché “…il reato di atti persecutori si configurava ogniqualvolta la condotta denunciata è in grado di destabilizzare l’equilibrio psichico della persona offesa, risultando di contro del tutto irrilevante l’assenza di un vero e proprio incontro fisico tra imputato e vittima…”.

STALKING: NORMATIVA E REQUISITI Lo “Stalking” (derivante dal verbo inglese “to stalk” che ha il significato letterale di “fare la posta”) è stato introdotto nel nostro ordinamento dal D.L. n. 11/09, che ha disciplinato il delitto di “atti persecutori” (art. 612-bis c.p.), il quale punisce chiunque “con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.

La finalità perseguita dal legislatore era, dunque, quella di tutelare il soggetto da tutti quei comportamenti (pedinamenti, minacce, appostamenti, telefonate ripetute e/o moleste) in grado di turbare in maniera significativa la vita e l’equilibrio personale, al fine di garantire alla vittima tranquillità psichica e riservatezza: il bene giuridico protetto dalla norma è quindi la libertà morale e personale dell’individuo, intesa quale facoltà di autodeterminarsi dello stesso.

USO DI WHATSAPP È ANCHE CIRCOSTANZA AGGRAVANTE Con un’altra recentissima Pronuncia (Cass. Pen., Sez. V., 28/01/19, N. 3989) la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto altresì configurabile l’aggravante stabilita dal comma 2 dell’art. 612 bis c.p. (fatto commesso attraverso strumenti informatici o telematici), confermando i sei mesi di reclusione inflitti in appello, in presenza di messaggi WhattsApp inviati a raffica dall’imputato alla vittima.

IRRILEVANZA DELL’ATTEGGIAMENTO CONCILIANTE ASSUNTO DALLA VITTIMA non esclude il reato la circostanza che la vittima, a causa della reiterata petulanza del persecutore, assuma un atteggiamento conciliante, rispondendo ad alcune delle telefonate ricevute (sul punto, http://studiofranchivalente.com/2018/06/28/372/).

SUFFICIENTE IL DOLO GENERICO Nel delitto di atti persecutori, l’elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, che consiste nella volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice: la condotta deve disvelare “…una intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica, anche se può realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l’agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi…” (cfr. cit. Sent. Cass. Pen. N.61/19).

NON NECESSARIA L’ESATTA COLLOCAZIONE TEMPORALE In proposito, poi, si osserva che, ai fini della rituale contestazione di tale delitto “…non si richiede che il capo di imputazione rechi la precisa indicazione del luogo e della data di ogni singolo episodio nel quale si sia concretato il compimento di atti persecutori, essendo sufficiente a consentire un’adeguata difesa la descrizione in sequenza dei comportamenti tenuti, la loro collocazione temporale di massima e le conseguenze per la persona offesa…” (cfr. Cass. Pen., Sez. III, 28/09/17, N. 3284).

Avv. Stefano FRANCHI

con la collaborazione della
Dott.ssa Francesca BONOMO

fv

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