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L’evoluzione tecnologica che interessa la nostra società ci pone costantemente di fronte a fenomeni sconosciuti e, pertanto, almeno inizialmente privi di copertura normativa. Ad oggi, ad esempio, si dibatte circa la natura giuridica delle criptovalute, mentre sino a pochi anni fa si discuteva delle implicazioni giuridiche del cybersquatting quale pratica illecita diffusa sul web e generata dal massiccio ricorso ad internet (e in particolare all’e-commerce) da parte delle aziende.

DEFINIZIONE GENERALE DI CYBERSQUATTING Il cybersquatting costituisce un illecito contro i diritti di proprietà industriale ed è attualmente disciplinato dall’art. 22 del D. Lgs. 30/2005 (c.d. Codice della Proprietà Industriale o C.P.I.), benché inizialmente l’istituto sia stato ricostruito e forgiato dalla giurisprudenza. Dall’inglese “squatter” ovvero abusivo, il cybersquatting consiste nella registrazione come nome a dominio di un marchio o di un altro segno distintivo dal carattere notorio di un’impresa, al solo fine di sfruttarne la notorietà “o di trarre un ingiusto profitto a danno del soggetto titolare del corrispondente diritto di privativa”. Scopo dei cybersquatter, dunque, è registrare segni distintivi altrui (marchio, ditta, denominazione o ragione sociale, etc.) come domain names per poi rivenderli ad un prezzo esorbitante ai legittimi proprietari affinché possano utilizzarli sul web.

A ciò si aggiunga che, nelle interpretazioni giurisprudenziali, il cybersquatting rappresenta un atto di concorrenza sleale per confusione ex articolo 2598 c.c. e un’ipotesi di illecito contraffattorio ex art. 473 c.p. in quanto “attività idonea ad impedire in modo assoluto al titolare del marchio l’utilizzo in Internet come nuovo ed ulteriore segno distintivo” e dunque censurabile sia sotto il profilo penale che sotto quello della violazione del diritto di proprietà industriale.

JACQUEMUS TRA I BRAND A RISCHIO Dall’analisi del quadro giuridico del cybersquatting, Si potrebbe sostenere che tale fenomeno interessi esclusivamente i brand del lusso che intrattengono un numero elevatissimo di relazioni commerciali sulle proprie piattaforme online. E’ noto, infatti, che brand dal calibro di Louis Vuitton, Hermès, Nike e Apple, siano state vittime dei cybersquatters. In realtà, il cybersquatting costituisce un rischio per moltissime imprese, anche di piccole e medie dimensioni e di recente costituzione.

Il riferimento è al brand Jacquemus, una giovane maisòn francese che negli ultimi anni ha assistito ad una crescita esponenziale dei propri profitti, grazie alla notorietà acquisita da alcuni suoi capi come le mini borse “Chiquito” o i cappelli oversize di paglia “Le Grand Chapeau Valensole”. Il successo della nascente fashion house francese non poteva che attirare l’attenzione dei cybersquatters, al punto che il marchio ha dovuto difendere il proprio nome e la reputazione instaurando diversi procedimenti nei loro confronti. Di recente, invero, l’Organizzazione Mondiale della Proprietà Industriale (in gergo, OMPI o WIPO in inglese) ha ordinato che molti nomi a dominio, contenenti il marchio “Jacquemuse non appartenenti all’azienda di moda parigina, fossero trasferiti alla maisòn dagli utenti che li utilizzavano in malafede al fine di confondere i consumatori.

A titolo esemplificativo, si ricordi il caso n. D2020 – 2073 “Jacquemus SAS v. Wenben Zhou” sul quale l’OMPI si è pronunciata riconoscendo che, in data 4 maggio 2020, il resistente cinese avesse registrato il nome a dominio “fashionjacquemus” e che questo fosse molto simile al marchio della ricorrente Jacquemus. Con la decisione in commento, l’OMPI ha affermato la mancanza di diritti o interessi legittimi del resistente cinese in relazione al nome a dominio contestato, non avendo la ricorrente autorizzato, concesso in licenza o altrimenti consentito al resistente di utilizzare il marchio in questione e non avendo l’azienda parigina alcun tipo di rapporto commerciale con il convenuto cinese. Dello stesso tenore la decisione sul caso n. D2020 – 2063 “Jacquemus SAS v. Privacy Administrator, Anonymize, Inc.” instaurato con reclamo del 4 agosto 2020; con l’unica differenza che, in tale ipotesi, si è fatto esplicitamente riferimento alla lesione della reputazione del marchio Jacquemus che ha pertanto ottenuto il trasferimento del nome a dominio “jacqumus.com”, registrato dal resistente.

In entrambe le vicende, il pericolo va rilevato nella confusione ingenerata nel consumatore mediante ciò che gli esperti di settore definiscono invisible trademark infringement: l’utente, a causa di un’associazione mentale di idee, è portato a ritenere che il cybersquatter realizzi e commercializzi gli stessi prodotti del brand originario o, perlomeno, prodotti che abbiano caratteristiche simili a quelli. Ciò spiega perché qualsiasi brand, a prescindere dalle dimensioni dell’azienda, deve necessariamente prestare attenzione e tutelarsi dai fenomeni di cybersquatting, sempre più diffusi e dannosi per il fashion system.

 Avv. Stefano FRANCHI

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