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La richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Roma nei confronti di una ex concorrente del Grande Fratello, rea di aver offeso pubblicamente la coppia composta da Fedez e Chiara Ferragni, ha riportato al centro dell’attenzione mediatica il delicato contesto in cui si inseriscono le offese sui mezzi social.

La diffusione dei social network ha infatti portato con sé anche utilizzi patologici, facilitati dalla frapposizione fra l’agente e la persona offesa di uno “schermo”, idoneo a fornire un’erronea certezza di impunità. La quantità di utenti presenti sui social permette, poi, che la portata lesiva delle offese o della diffusione di materiale non autorizzato – si pensi alla pratica del “revenge porn” (clicca qui per approfondire l’argomento) – acquisisca una dimensione smisurata.

LA QUERELA SPORTA DAI “FERRAGNEZ” E LA RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE L’indagata (come detto, una ex concorrente del Grande Fratello) aveva definito la coppia “due idioti palloni gonfiati irrispettosi della vita delle persone e degli animali”, per via della loro abitudine a indossare pellicce e per la famigerata festa di compleanno in un supermercato in cui si filmarono durante il lancio di frutta e verdura dagli scaffali.

La querela subito sporta dalla celebre coppia aveva dato origine a una indagine penale per diffamazione aggravata, che il Pubblico Ministero procedente all’esito delle indagini ha archiviato, facendo leva su una interpretazione assolutamente minoritaria della giurisprudenza.

Il P.M. ha infatti stabilito che l’offesa arrecata è inidonea a ledere la reputazione dei vip querelanti, ritenendo l’insulto via social dotato di “scarsa considerazione e credibilità”, poiché proveniente da soggetti di qualunque livello culturale e sociale: la condotta tenuta dall’indagata pertanto – pur astrattamente idonea ad integrare il reato di diffamazione – risulterebbe  in concreto inoffensiva, poiché semplice espressione di frustrazione personale.

L’interpretazione della Procura, come già evidenziato, contrasta con la generalità delle Pronunce di legittimità rese sull’argomento, e rischia di garantire una vera e propria zona franca, particolarmente pericolosa nel caso di coinvolgimento di minori o soggetti più deboli.

IL REATO DI DIFFAMAZIONE NEL CODICE PENALE Il reato di diffamazione, disciplinato dagli artt. 595 e ss. c.p., è teso a punire chi, comunicando con più soggetti, offenda la reputazione di persone non presenti, dunque prive di ogni possibilità di difesa o ritorsione.

La norma dispone, al terzo comma, che la pena sia aumentata qualora l’offesa sia arrecata con il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità; a quest’ultima categoria sembrerebbe possibile ricondurre anche le offese effettuate sui mezzi social.

L’UTILIZZO DEI SOCIAL NETWORK COME AGGRAVANTE La Suprema Corte di Cassazione, sul punto, ha ritenuto che la diffusione di un messaggio diffamatorio su Facebook integrasse un’ipotesi di diffamazione aggravata, ex Art. 595, comma 3, c.p., proprio in quanto il social è qualificabile quale “altro mezzo di pubblicità”; non è invece possibile far rientrare il fenomeno nell’offesa “col mezzo della stampa”, perché i social non sono destinati ad attività di informazione professionale diretta al pubblico (fra le tante, Cass. Pen., Sez. V, Sentenza n. 4873 del 1° febbraio 2017).

Quando l’offesa sia effettuata sui social, peraltro, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che debba presumersi la sua diffusione perché un messaggio, una volta immesso, è accessibile potenzialmente da tutti gli utenti di internet (ex multis Cass. Pen., sez. I, sent. n. 2739/2011), con la conseguenza che sarà l’imputato a dover dimostrare che al suo inserimento sulla rete non sia seguita l’effettiva diffusione fra il pubblico.

Avv. Stefano FRANCHI

con la collaborazione di
Francesca De Vincentiis

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