Con l’ordinanza dello scorso 10 febbraio, il Tribunale di Milano si è pronunciato su un ricorso d’urgenza ex artt. 669-bis e 700 c.p.c. e ha ordinato alla Apple Italia S.r.l di fornire assistenza ad una coppia di genitori nel recupero dei dati personali dall’ I-Cloud del telefono del figlio deceduto. La decisione in commento trova fondamento nelle “ragioni familiari meritevoli di protezione” che giustificherebbero l’esercizio dei diritti del defunto da parte dei suoi eredi ed è destinata ad assurgere ad importante precedente giuridico in tema di eredità digitale.
IL CASO E I MOTIVI DEL RICORSO Il ricorso è stato presentato da una coppia di genitori a seguito della morte del figlio nel corso di un terribile incidente stradale. Nell’incidente l’I-Phone X del giovane era andato completamente distrutto, con la conseguenza che non era stato possibile recuperare foto, video, documenti e ulteriori dati personali archiviati nell’I-Cloud (un sistema di sincronizzazione online dello smartphone che permette di salvare i contenuti digitali e di consentirne l’accesso da altri dispositivi). Così, i genitori decidevano di rivolgersi ad “Apple Italia S.r.l.”, società appartenente al gruppo “Apple – Apple Distribution International LTD”, per ottenere le credenziali d’accesso all’I-Cloud e recuperare i dati salvati in vista di future commemorazioni del figlio defunto.
La società, tuttavia, replicava agli eredi che non era possibile ottenere l’accesso al cloud in assenza di un ordine del Giudice che specificasse:
“i) che il defunto fosse il proprietario di tutti gli account associati all’ID Apple;
ii) che il richiedente fosse l’amministratore o il rappresentante legale del patrimonio del defunto;
iii) che, in qualità di amministratore o rappresentante legale, il richiedente agisse come “agente” del defunto e la sua autorizzazione costituisse un “consenso legittimo”, secondo le definizioni contenute nell’Electronic Communications Privacy Act;
iv) che il Tribunale ordinasse a Apple di fornire assistenza nel recupero dei dati personali dagli account del defunto, che potrebbero contenere anche informazioni o dati personali identificabili di terzi”.
Dato che la società ha preteso un “ordine” del Tribunale per consentire l’accesso ai dati contenuti dell’ID Apple, gli eredi del defunto sono stati costretti a ricorrere all’Autorità Giudiziaria in via d’urgenza, secondo le forme previste degli articoli 669-bis e 700 c.p.c., per evitare che la Apple distruggesse i contenuti digitali archiviati nel cloud come da contratto.
IL CONTENUTO DELL’ORDINANZA Come accennato, la Corte meneghina ha accolto le richieste dei ricorrenti, vagliando in primo luogo la sussistenza dei requisiti d’urgenza previsti dalla legge. Requisiti che, come noto, consistono nel periculum in mora e nel fumus boni iuris. In merito alla sussistenza del periculum in mora, il Tribunale ha posto in evidenza che Apple, dopo un determinato periodo di inattività dell’account I-Cloud, procede normalmente alla cancellazione dei dati contenuti, ravvisando proprio in tale operazione quel pregiudizio grave e irreparabile in cui sarebbero incorsi i ricorrenti. Invece il fumus, e cioè la parvenza del buon diritto degli eredi, è stato rinvenuto negli articoli 2-terdecies del D. Lgs. 101/2018 e 6, paragrafo 1, lettera f), del Regolamento Ue 2016/679 (GDPR).
La prima delle disposizioni citate, rubricata “Diritti riguardanti le persone decedute”, stabilisce che i diritti di cui agli articoli da 15 a 22 del Regolamento Ue, riferiti ai dati personali concernenti persone decedute, possono essere esercitati da chi ha un interesse proprio, o agisce a tutela dell’interessato, in qualità di suo mandatario, o per ragioni familiari meritevoli di protezione. L’esercizio di tali diritti – prosegue la norma – non è ammesso nei casi previsti dalla legge o quando, limitatamente all’offerta diretta di servizi della società dell’informazione, l’interessato lo ha espressamente vietato con dichiarazione scritta presentata al titolare del trattamento o a quest’ultimo comunicata.
Sulla scorta dell’articolo 2-terdecies su menzionato, il Tribunale di Milano ha dunque ritenuto meritevoli di accoglimento le richieste dei ricorrenti, dal momento che non risultavano dichiarazioni scritte da cui emergesse la volontà del defunto di opporsi all’esercizio da parte di altri dei diritti afferenti i propri dati personali.
Fin qui la decisione del Tribunale meneghino appare del tutto condivisibile. Desta perplessità, invece, la parte dell’ordinanza ove si legge che “con riferimento al diniego opposto da Apple S.r.l. per tutelare la sicurezza dei clienti (cfr. doc. 2 e 6) – e, dunque, per quanto attiene all’applicabilità del GDPR unicamente in relazione alla controparte della comunicazione, società odierna resistente (stante l’inapplicabilità del Regolamento ai dati di una persona defunta), si osserva come l’art. 6, par. 1, lettera f) del citato Regolamento autorizzi il trattamento dei dati personali necessario per il “perseguimento del legittimo interesse” del titolare o di terzi. Atteso che i ricorrenti, genitori del defunto sig. XXXXXXXX, intendono accedere agli account personali del defunto figlio per “ragioni familiari meritevoli di protezione”, deve ritenersi sussistente il predetto legittimo” interesse.
In sintesi, per superare l’argomento più solido opposto da Apple – incentrato sul potenziale pregiudizio che l’accoglimento della richiesta dei ricorrenti arrecherebbe ai dati di terzi contenuti nel cloud – il Giudice ha equiparato le “ragioni familiari meritevoli di protezione” al “legittimo interesse” di cui all’art. 6, par.1, lett. f) GDPR, con una giustificabile ma evidente forzatura della disposizione europea.
APPLE E IL PROBLEMA DELL’EREDITA’ DIGITALE Emessa l’ordinanza, resta da chiedersi se la Apple si adeguerà alla decisione adottando una data governance ossequiosa della normativa italiana o se, di volta in volta, procederà col richiedere uno specifico ordine del Giudice per consentire agli eredi il recupero dei dati delle persone defunte. In linea generale, può dirsi che le altre piattaforme hanno posto rimedio al problema in questione. Twitter, ad esempio, permette la cancellazione delle informazioni di un utente dopo sei mesi d’inattività del profilo associato, mentre Facebook concede all’iscritto la facoltà di avvalersi di una sorta di “testamento digitale”, consentendo allo stesso di scegliere in vita se chiudere o meno il profilo dopo la morte.
Avv. Stefano FRANCHI